Un nuovo studio dell’Università dell’Iowa fornisce la prima prova sperimentale che l’esposizione al glifosato, anche a livelli ufficialmente definiti “sicuri”, altera il microbioma intestinale dei mammiferi.

Il glifosato è l’ingrediente attivo della linea di erbicidi ad ampio spettro della Monsanto (di proprietà della Bayer), tuttora ampiamente utilizzata.

Costituito da trilioni di microrganismi benigni e sempre residenti (batteri, lieviti, funghi e persino virus), il microbioma intestinale aiuta gli animali a digerire il cibo, a combattere le infezioni, a produrre vitamina K e altre importanti biomolecole e a metabolizzare i farmaci.

I microbi intestinali, in particolare alcune specie batteriche, possono anche apportare benefici al sistema immunitario e alla salute del cuore, riducendo il rischio di cancro e influenzando positivamente un sano invecchiamento e la longevità. Il termine “microbioma” si riferisce a questi organismi e anche ai loro genomi collettivi.

Dei ricercatori dell’Università dell’Iowa hanno scoperto che a livelli che si avvicinano alla dose giornaliera accettabile (DGA) degli Stati Uniti – 1,75 milligrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno – il glifosato altera la composizione del microbioma intestinale e induce “un ambiente pro-infiammatorio”.

Ciò è stato determinato misurando la perdita delle specie batteriche benefiche Lactobacillus e Bifidobacterium e il contemporaneo blocco delle vie geniche microbiche che producono acidi grassi antinfiammatori a catena corta.

I cambiamenti nelle popolazioni di microbi intestinali erano accompagnati anche da livelli più elevati di marcatori pro-infiammatori, come la lipocalina-2 e le cellule del sistema immunitario CD4/IL17A-positive, e da un aumento del pH fecale.

La lipocalina-2 è un biomarcatore per varie forme di malattie renali, insufficienza cardiaca e malattie legate all’obesità. La famiglia di citochine IL-17 promuove l’immunità protettiva contro molti agenti patogeni ma, paradossalmente, guida anche la patologia infiammatoria durante le infezioni e l’autoimmunità.

Secondo gli autori dello studio, pubblicato nel numero di giugno di Environmental Toxicology and Pharmacology, un aumento del pH fecale inibisce la normale produzione di acidi grassi antinfiammatori a catena corta.

Hanno concluso:

“Nel complesso, i nostri risultati suggeriscono che l’esposizione a basse dosi di glifosato, che si avvicina alla DGA statunitense, è sufficiente a modulare l’omeostasi intestinale”.

“Questo studio fornisce anche nuove conoscenze sui meccanismi attraverso i quali il glifosato influisce sulla fisiologia dell’ospite”.

Lo stato del microbioma è sempre più considerato un marcatore surrogato della salute generale di un organismo.

Secondo la Cleveland Clinic, i sintomi della disregolazione del microbioma intestinale includono stitichezza, diarrea, gonfiore, affaticamento e reflusso acido, associati a condizioni di salute quali diabete, obesità, malattie infiammatorie intestinali e sindrome dell’intestino irritabile.

Primo studio che collega il dosaggio all’effetto del glifosato sul microbioma intestinale

Come spesso accade con i veleni ad ampio spettro, il glifosato può influire sulla salute umana attraverso una serie di meccanismi, pochi o nessuno dei quali è stato studiato in modo rigoroso.

Un possibile meccanismo è l’alterazione del microbioma intestinale, il che è notoriamente dannoso.

Lo studio dell’Iowa è il primo a collegare il dosaggio, in modo sistematico, agli effetti del glifosato sul microbioma intestinale.

I ricercatori hanno utilizzato topi C57BL/6J, un ceppo normalmente selezionato per lo studio della perdita uditiva legata all’età. Gli animali sono stati allevati secondo il protocollo con mangime irradiato e spostati da una gabbia all’altra prima dei test per normalizzare la microflora intestinale di ciascun animale.

I topi sono stati poi esposti a tre diversi livelli di concentrazione di glifosato nell’acqua potabile: 1, 10 e 100 microgrammi di glifosato per millilitro d’acqua. Lo schema di dosaggio intermedio, 10 microgrammi per millilitro, corrispondeva alla DGA statunitense per adulti di 1,75 mg/kg/al giorno (ipotizzando un’assunzione di acqua di 4 millilitri al giorno).

Durante lo studio di 90 giorni, i ricercatori hanno raccolto le feci nei giorni 30, 60 e 90, che hanno congelato per analisi future. Allo stesso modo, hanno raccolto il sangue al giorno 30 e 60.

Al 90° giorno, gli sperimentatori hanno ucciso i topi e raccolto il tessuto del colon per esaminare la lamina propria, una ricca fonte di cellule somatiche e del sistema immunitario.

I ricercatori hanno scoperto che l’esposizione al glifosato a dosi vicine alla DGA statunitense aveva alterato le popolazioni di microrganismi che normalmente abitano l’intestino e aveva influenzato il sistema neuro-immuno-endocrino degli animali verso uno stato pro-infiammatorio.

Anche ai livelli della DGA, l’esposizione al glifosato influisce negativamente sull'”omeostasi intestinale” e sulla fisiologia degli animali, hanno affermato gli autori.

Questo studio solleva domande sulla suscettibilità degli animali in esame alla disregolazione del microbioma come risultato dell’allevamento, della dieta, dei geni o di una combinazione di questi fattori.

L’autore principale dello studio, Dr. Ashutosh K. Mangalam, professore associato e direttore della struttura di ricerca Microbiome Core dell’Università dell’Iowa, ha rifiutato di rispondere alle domande di The Defender su questi temi.

La metodologia dello studio solleva dubbi

È noto almeno dal 2012 che il glifosato interagisce con il microbioma intestinale sulla base di osservazioni su specie che vanno dalle api da miele alle carpe.

Allo stesso modo, è noto da almeno un decennio che l’erbicida interferisce con la funzione immunitaria.

Sebbene tutto questo sia scienza consolidata, dimostrata più volte in tutte le specie e gli habitat, non significa di per sé che il glifosato alla DGA umana sia dannoso per l’uomo.

Bisogna anche diffidare dall’estrapolare troppo facilmente i risultati sulla salute umana da quelli che sono essenzialmente studi su biomarcatori animali.

Le “ulteriori ricerche” invocate dagli autori dello studio dovrebbero quindi includere la convalida del loro modello murino, seguita da prove sugli animali affetti per studiare come gli esiti specifici della salute si colleghino alle alterazioni del microbioma oggetto di studio.

Ad esempio, i topi potrebbero essere esposti a patogeni o antigeni dopo le alterazioni della microflora per osservare le risposte infiammatorie o la loro capacità di combattere le malattie infettive.

A causa della potenziale interconnessione causale, uno dei controlli per questo esperimento dovrebbe essere costituito da animali i cui batteri intestinali sono stati influenzati in modo simile, ma per mezzo di un agente diverso.

In altre parole, gli animali si ammalano a causa di queste specifiche disfunzioni legate alle cellule immunitarie o agli acidi grassi? Oppure il glifosato sta influenzando negativamente la salute dell’animale attraverso un meccanismo diverso, oltre ai suoi effetti sul microbiota?

Qual è l’entità del problema glifosato?

L’uso sempre crescente del glifosato negli Stati Uniti risale a decenni fa, nonostante l’incessante controllo medico e scientifico.

Approvato per la prima volta nel 1974, il glifosato è ancora ampiamente utilizzato in ambito agricolo, governativo e consumeristico, nonostante sia stato collegato a decine di gravi problemi di salute e, a partire dal 2022, sia stato oggetto di almeno 125.000 cause legali.

L’uso di erbicidi a base di glifosato è decuplicato con l’introduzione di colture geneticamente modificate “resistenti all’erbicida Roundup”. È l’erbicida più utilizzato nell’agricoltura statunitense, con una stima di 287 milioni di libbre applicate a campi e colture nel 2016.

Nonostante le numerose prove che il glifosato provoca danni e gli enormi risarcimenti a favore dei querelanti, l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (EPA, acronimo di Environmental Protection Agency) ha concesso più volte alla sostanza chimica e al suo produttore il beneficio del dubbio.

Ogni 15 anni, l’EPA rivede gli aspetti chiave della registrazione degli erbicidi (“pesticidi” nella terminologia dell’EPA).

Nel 2020, in risposta ai commenti pubblici che mettevano in dubbio la sicurezza della sostanza chimica per gli animali e l’ambiente, l’agenzia ha riaffermato la sua posizione ormai detenuta da lunga data secondo cui l’erbicida non provoca il cancro nell’uomo e che non c’è “alcun rischio per la salute umana derivante dagli usi attuali del glifosato” né per “bambini né per adulti” quando il prodotto è “usato secondo le indicazioni dell’etichetta”.

Inoltre, l’agenzia non ha rilevato:

  • nessuna indicazione che i bambini siano più sensibili al glifosato a causa di “esposizione in-utero o post-natale” e non vi sono “rischi degni di preoccupazione per l’ingestione di alimenti con residui di glifosato” o per “i bambini che entrano o giocano in aree residenziali trattate con glifosato”;
  • nessuna prova che il glifosato causi il cancro negli esseri umani. Su questo punto, l’EPA è in disaccordo con l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, che nel 2015 ha indicato il glifosato come “probabilmente cancerogeno per l’uomo“;
  • nessuna indicazione che il glifosato sia un interferente endocrino in virtù del superamento dello screening di livello I nell’ambito del programma di screening degli interferenti endocrini.

Analogamente e prevedibilmente, il National Pesticide Information Center (Centro nazionale per le informazioni sui pesticidi), un gruppo associato all’EPA presso l’Oregon State University, nega qualsiasi collegamento tra glifosato e malattie umane:

“Il glifosato puro è poco tossico, ma i prodotti di solito contengono altri ingredienti che aiutano il glifosato a penetrare nelle piante. Gli altri ingredienti presenti nel prodotto possono renderlo più tossico”.

In altre parole, il glifosato è tossico solo se entra nelle piante, il che è poco confortante se si considerano le sue concentrazioni nei tessuti umani. Con il glifosato o il suo metabolita presente nelle urine dell’ 81% degli americani di età superiore ai 6 anni e nei campioni del 75% delle donne canadesi in gravidanza, la sostanza chimica è già presente in quasi tutti noi.