Quando andai in viaggio a Mosca nel 1986, avevo nella borsa 10 paia di Levi’s 501. Ero una ginnasta di 17 anni, la campionessa nazionale in carica e stavo andando in Unione Sovietica per competere nei Goodwill Games, una competizione “canaglia” di livello olimpico orchestrata dal fondatore della CNN Ted Turner in un tempo in cui l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti si boicottavano a vicenda.

I jeans dovevano essere barattati con la lycra: i body dei russi rappresentavano la tonicità, il prestigio, la disciplina. D’altro canto i russi desideravano il mio denim e tutto ciò che rappresentava: la robustezza americana, la libertà, l’individualismo.

Mi piaceva indossare i Levi’s – li portavo da sempre, non ricordo nemmeno da quando. Ma se mi avessero detto allora che un giorno sarei diventata presidente del brand, non ci avrei mai creduto.

Se mi avessero detto che dopo aver ottenuto tutto questo, dopo aver trascorso quasi tutta la mia carriera in una sola azienda, mi sarei dimessa da essa, avrei pensato che chi diceva una cosa del genere fosse pazzo davvero.

Oggi, sto facendo proprio questo. Perché? Perché, dopo tutti questi anni, l’azienda che amo ha perso di vista i valori che hanno fatto sì che la gente ovunque – compresi i ginnasti dell’ex Unione Sovietica – volesse indossare dei Levi’s.

Goodwill Games
Jennifer Sey (al centro) a Mosca ai Goodwill Games.

La mia permanenza alla Levi’s è iniziata come assistente marketing manager nel 1999, pochi mesi dopo il mio trentesimo compleanno. Con il passare degli anni, ho visto l’azienda passare attraverso tutte le tendenze. Ero direttrice del marketing per gli Stati Uniti quando i jeans skinny sono diventati di moda.

Ero il capo del marketing quando i pantaloni a vita alta sono diventati di moda. Alla fine sono diventata presidente globale del marchio nel 2020 – la prima donna a ricoprire questo incarico. (E in qualche modo è tornata la vita bassa.)

Durante i miei due decenni alla Levi’s, mi sono sposata. Ho avuto due figli. Ho divorziato. Ho avuto altri due figli. Mi sono sposata di nuovo. L’azienda è stata la cosa più costante nella mia vita. E, fino a poco tempo fa, mi sono sempre sentita incoraggiata a portare tutta me stessa al lavoro – compreso il mio impegno in politica.

Questo impegno si è sempre concentrato sui bambini.

Nel 2008, quando ero uno dei vicepresidenti del marketing, ho pubblicato un libro di memorie sui miei trascorsi da ginnasta d’elite che era incentrato sul lato oscuro dello sport, in particolare il maltrattamento dei bambini.

La comunità della ginnastica mi ha minacciato di azioni legali e di violenza. Ex concorrenti, compagni di squadra e allenatori hanno liquidato la mia storia come quella di una che non sa perdere, che cerca solo di fare un po’ di soldi. Mi hanno chiamata truffatrice e bugiarda.

Ma in quella occasione la Levi’s è rimasta dalla mia parte. Più di questo: mi hanno trattato come un eroe.

Le cose sono cambiate quando è arrivata la COVID. All’inizio della pandemia, ho messo pubblicamente in dubbio che si dovessero chiudere le scuole. Questo non mi sembrava affatto una cosa controversa.

Ero convinta – e lo sono ancora – che le politiche draconiane avrebbero causato dei danni maggiori a chi era meno a rischio, e che il peso sarebbe ricaduto più pesantemente sui bambini poveri delle scuole pubbliche, che più degli altri hanno bisogno della sicurezza e della routine della scuola.

Ho scritto editoriali, sono apparsa ai telegiornali locali, ho partecipato a riunioni con l’ufficio del sindaco, ho organizzato comizi e ho supplicato sui social media per far aprire le scuole. Sono stato condannata per essermi espressa liberamente.

Questa volta sono stata chiamata razzista – una strana accusa dato che ho due figli neri – eugenista, e complottista QAnon.

Nell’estate del 2020, ho finalmente ricevuto la telefonata. “Sai che quando parli, parli a nome dell’azienda”, mi ha detto il nostro capo delle comunicazioni aziendali, esortandomi al silenzio. Ho risposto: “Il mio titolo non è nella mia descrizione biografica su Twitter. Parlo come mamma con quattro figli nella scuola pubblica”.

Ma le chiamate continuavano ad arrivare. Dall’Ufficio legale. Da Risorse umane. Da un membro del consiglio. E infine, dal mio capo, il CEO dell’azienda.

Ho spiegato perché avevo una posizione così forte sulla questione, citando dati sulla sicurezza delle scuole e i danni causati dall’apprendimento virtuale. Anche se non hanno cercato di imbavagliarmi, mi è stato detto ripetutamente di “pensare a quello che stavo dicendo”.

Nel frattempo, i colleghi postavano senza sosta sulla necessità di spodestare Trump nelle elezioni di novembre. Io ho anche condiviso il mio sostegno a Elizabeth Warren nelle primarie democratiche e la mia grande tristezza per gli omicidi a sfondo razziale di Ahmaud Arbery e George Floyd. Nessuno nell’azienda ha avuto niente da dire su tutto ciò.

Poi, nell’ottobre 2020, quando era chiaro che le scuole pubbliche non avrebbero aperto quell’autunno, ho proposto alla direzione dell’azienda di intervenire sul tema della chiusura delle scuole nella nostra città, San Francisco. Spesso prendiamo posizione su questioni politiche che hanno un impatto sui nostri dipendenti – ci siamo espressi sui diritti dei gay, sul diritto di voto, sulla sicurezza delle armi e altro ancora.

La risposta questa volta è stata diversa. “Non ci occupiamo di questioni strettamente locali come questa”, mi è stato detto. “Ci sono anche molti aspetti potenzialmente negativi se ci schieriamo con tale forza, a cominciare dai numerosi dirigenti che hanno figli nelle scuole private della città”.

Mi sono rifiutata di smettere di esprimermi. Ho continuato a denunciare le politiche ipocrite e infondate, ho incontrato l’ufficio del sindaco, e alla fine ho sradicato tutta la mia vita in California – ho vissuto lì per oltre 30 anni – e ho trasferito la mia famiglia a Denver in modo che il mio bambino in età da asilo potesse finalmente provare una scuola vera.

Siamo riusciti ad assicurargli un posto in una scuola pubblica a doppia immersione linguistica spagnolo-inglese come quella che avrebbe dovuto frequentare a San Francisco.

I media nazionali hanno raccolto la nostra storia, e mi è stato chiesto di andare allo show di Laura Ingraham su Fox News. Quell’apparizione è stata l’ultima goccia.

I commenti dei dipendenti della Levi’s sono aumentati: dicevano che ero anti-scienza; che ero anti-grasso (avevo ritwittato uno studio che mostrava una correlazione tra obesità e cattiva salute); che ero anti-trans (avevo twittato che non avremmo dovuto abbandonare la ‘Festa della mamma’ a favore della ‘Festa delle persone procreanti’ perché lasciava fuori le madri adottive e le matrigne); e che ero razzista, perché il sistema scolastico pubblico di San Francisco era pieno di bambini neri e mulatti e, evidentemente, non mi importava se morivano.

Mi hanno anche castigato per le opinioni sulla COVID di mio marito – come se io, essendo sua moglie, fossi responsabile delle cose che diceva lui, sui social media.

Tutto questo dramma ha avuto luogo durante la nostra conferenza periodica – una riunione aziendale a cui di solito ero ansiosa di partecipare ma che ora temevo.

Nel frattempo, il capo dell’ufficio per la diversità, l’equità e l’inclusione dell’azienda mi ha chiesto di fare un “giro di scuse”. Mi è stato detto che la principale lamentela contro di me era che “non ero amica della comunità nera della Levi’s”. Mi è stato detto di dire “sono un alleato imperfetto”. Ho rifiutato.

Il fatto che nel 2017 due dipendenti neri mi avessero chiesto di essere lo sponsor esecutivo del “Gruppo delle risorse dei dipendenti neri” non aveva importanza. Il fatto che ho lottato per anni per i bambini non aveva importanza. Che io stessi solo citando dei fatti non aveva importanza.

Il capo delle risorse umane mi ha detto personalmente che anche se avevo ragione sulle scuole, che era classista e razzista che le scuole pubbliche rimanessero chiuse mentre quelle private erano aperte, e che probabilmente avevo ragione su tutto il resto, non dovevo comunque dirlo. Continuavo a pensare: perché non dovrei parlare?

Nell’autunno del 2021, durante una cena con il CEO, mi è stato detto che ero sulla buona strada per diventare il prossimo CEO della Levi’s – il prezzo delle azioni era raddoppiato sotto la mia guida, e le entrate erano tornate a livelli pre-pandemici. L’unico ostacolo sulla mia strada, ha detto, ero io stessa. Tutto quello che dovevo fare era smettere di parlare della questione della scuola.

Famiglia Sey
L’autrice con la sua famiglia al San Francisco Pride nel 2015.

Ma gli attacchi non si sarebbero fermati.

I troll anonimi su Twitter, alcuni con quasi mezzo milione di follower, hanno detto che la gente doveva boicottare la Levi’s fino a quando non mi avesse licenziato. Così come alcuni dei miei vecchi fan della ginnastica. Hanno chiamato la hotline di etica dell’azienda e inviato e-mail.

Ogni giorno, un dossier dei miei tweet e di tutte le mie interazioni online veniva inviato al CEO dal capo delle comunicazioni aziendali. In una riunione del team esecutivo di leadership, l’amministratore delegato ha buttato lì una battuta dicendo che mi stavo “comportando come Donald Trump”. Mi sono sentita in imbarazzo e ho spento la telecamera per riprendermi.

Nell’ultimo mese, il CEO mi ha detto che era “insostenibile” per me rimanere. Mi è stata offerta una liquidazione di 1 milione di dollari, ma sapevo che avrei dovuto firmare un accordo di non divulgazione sul perché ero stata buttata fuori.

Certo i soldi farebbero comodo. Ma proprio non posso farlo. Scusa, Levi’s.

Originariamente pubblicato sulla pagina Substack di Bari Weiss.